Intervista a Bruno Callieri (Docente di Psichiatria e di Clinica Neuropsichiatrica, Università La Sapienza, Roma)
Per intraprendere un percorso sul tema dell'equivoco psicosomatico della corporeità, è opportuno parlare della distinzione tra mente e corpo, che fonda il nostro modo
di pensare…
Piuttosto che considerare il mio corpo separato dalla mente, io comincio, invece, a pensarlo in termini di partner: la corporeità diventa un partner che ho accanto, inseparabile intermediario
mondano.
Il dilemma si sposta, a questo punto, su un'altra questione: il corpo, per essere il mio partner, è il corpo come Körper, compagine di carne ed ossa, o corpo
vissuto, Leib? E' il corpo che affido al chirurgo che leva il patereccio, o è la mano che carezza il volto dell'amata, in cui sono io che carezzo e non la mia mano? Il mio
partner è Körper o Leib?
Se è il corpo vissuto, fonte continua di eventi, io lo sentirò mio inseparabile compagno, con il quale finirò. Se, viceversa, "fosse solo nato a formar l'angelica
farfalla", allora lo guarderei, come guardo me allo specchio con i segni della vecchiaia che prima non avevo, guardandoli quasi con stizza.
Se lo vedo come Leib, come io-Bruno, io sono quello e questi sono i segni incavati sulla pelle dei miei incontri, del mio pensare, dei miei amici, insomma di me. È un
modo diverso di guardare al corpo.
A mio avviso, l'esperienza vissuta del "corpo proprio" investe uno dei nodi essenziali della psicopatologia, come discorso della psiche e
discorso sullapsiche, costituendo uno dei temi e dei problemi più appassionanti dell'indagine antropofenomenologica.
Da psichiatra, il dramma del corpo lo vedo perfettamente rappresentato nell'ipocondriaco. Questi, infatti, ha un corpo come soma: proprio come un "somaro" che porta un peso addosso.
Nell'affermazione «ho un dolore qui», il corpo, nell'ipocondriaco, si trasforma in un segnale continuo di minaccia. Mai si realizzerà un incontro diverso con quel partner, non si tratterà mai di
me-corpo-come-mio-partner, di Leib, di corps propre (Zielinski).
La psicosomatica sembra il luogo privilegiato della comunicazione tra corpo e mente. I disturbi psicosomatici sembrano l'espressione di un equivoco di fondo in questa comunicazione in cui il disagio
psicosomatico si esprime, solo, attraverso i canoni di una visione che separa il corpo dalle mente. In che modo questa separazione dualistica mente/corpo danneggia la ricerca medica clinica? Che
esempi pratici e teorici le vengono in mente?
A mio avviso, la separazione dualistica mente/corpo conduce la ricerca verso lidi che sono fecondissimi dal punto di vista delle Scienze della Natura, nel senso di Dilthey, ma che
sono di una sterilità estrema nel senso del rapporto interumano, cioè della comunicazione tra uomini, della buberiana "noità".
Io non saprei definire cosa sia la mente né cosa sia il corpo, perché mi rifiuto di considerarmi corpo se non come corpo vissuto o mente se non come mente neuronale. Per fare un esempio, al più,
posso dire che la compagine ossea e muscolare che costituisce il mio corpo porta istanze particolari, le quali sfuggono ad ogni definizione. Alcuni, per queste istanze, incontrano e definiscono la
mente, altri non ci pensano neppure.
Ecco perché da alcuni psicoanalisti, junghiani per lo più, che si sono nutriti anche di altre culture, quale quella Indiana, ho imparato molte cose. Questa separazione per loro non esiste; sfugge
loro il significato del dualismo mente/corpo di fronte al quale, eventualmente, sorridono, ritenendolo un nostro pseudoproblema. Il fatto che una cultura piena di storia, tradizioni e sensibilità
d'animo sorrida di fronte al nostro ostinarci a considerare la mente separata dal corpo, personalmente mi fa riflettere. Mi rendo conto, però, quanto sia difficile uscire dal nostro involucro ed ecco
perché quello che è riconosciuto come l'Errore di Cartesio, io lo ridefinirei il destino di Cartesio: un destino occidentale di dualismo e separazione.
Ci troviamo, così, a riflettere sul problema dei danni del dualismo e, prima di fornire degli esempi teorici e pratici, preciserei che si tratta, piuttosto, di equivoci.
Oggi li vediamo in Italia e, come esempio, mi viene da pensare ad un mio commento del 1992 sulla Treccani, a proposito dell'aggiornamento della voceEmozione nell'appendice V. Si
procedeva, infatti, nel definirla attraverso giro cingolare, stria midollare del talamo, caratteristiche organizzative, componenti espressivo somatiche e componenti ormonali. Poco tempo dopo usciva
un mirabile libro di Eugenio Borgna "L'arcipelago delle emozioni", lontanissimo da questa definizione. Se io fossi stato un direttore della Treccani mi sarei vergognato un po' di aver partorito,
dieci anni fa, per la parola emozione, così poco. Il direttore mi rispose che può accadere, cose come queste possono sfuggire. Ma non può bastare, non si tratta di cose che sfuggono, quanto di
opzioni e scelte che, invece, si pagano.
Nell'enciclopedia francese non accade, infatti: per lo stesso termine, larga parte è dedicata alla definizione lacaniana, trova poi spazio il contributo fornito dalla psicoanalisi di gruppo per
l'induzione delle emozioni ed, infine, i necessari contributi organici. Una definizione complessa, ma armonica, fa la differenza rispetto a noi.
C'è chi si batte perché si comprenda che è possibile una strada diversa da quella che vede la mente separata dal corpo. In ambito psicosomatico, una nuova definizione semantica, più aperta, che
ascolti il linguaggio dei sintomi e delle funzioni d'organo, può essere una strada percorribile rispetto all'atteggiamento riduzionista più consueto?
Un tentativo di allargare il significato dei termini in cui si esprime la psicosomatica, cioè di risemantizzare vecchi e nuovi campi, potrebbe essere tra l'altro un modo per colmare i vuoti
patogenetici?
E' qualcosa che ci proponiamo e che deve essere fatto, anche se duemila anni e più di storia del pensiero occidentale ci hanno forgiato a pensare in un certo modo. In termini pratici, si tratta di un
discorso che si perde nella notte dei tempi. Una risemantizzazione, infatti, può colmare i vuoti solo in senso ermeneutico: non si può trascurare la possibilità di un'alternativa indagine che tenti
di costruire un'ermeneutica dell'io sono; un'ermeneutica che prenda le mosse dalla confutazione del Cogito cartesiano (...), un'ermeneutica decisa a mantenere, fianco a fianco,
l'affermazione serena "io sono" e il dubbio angosciante e omnipervasivo "chi sono io?" Qui si inserisce la metafora, che oggi sembra volere proseguire il cammino iniziato dai miti della
psicosomatica, con un linguaggio coraggiosamente polisemico, si pensi alla metafora viva di Paul Ricoeur.
Mi viene in mente, ad esempio, il fatto che Sifneos parla di Alexitimia - la difficoltà di verbalizzare le emozioni che significa, già di per sé, effettuare un grosso salto di
qualità. Utilizzare questo termine, vuol dire evidenziare, a noi stessi e al nostro interlocutore, gli abissi che il linguaggio supera nelle emozioni.
Quindi, a proposito di emozioni e linguaggio, non posso evitare di sorridere quando si parla di "neurotrasmettitori X che nel muoversi producono quel sentimento Y, chiamato amore". Forse si tratta di
un approccio interessante, ma io lo vedo come una forma di riduzionismo che mi infastidisce. Piuttosto, senza paura di perdermi, parlerei di enigma della mente.
Lei ha parlato spesso del bisogno di demitizzare la nosologia psichiatrica, fondando il discorso nosologico su una visione globale di persona. E' forse questa una posizione eretica, contro
l'ipostatizzazione, invece, ancora in atto?
La parola demitizzazione fa riferimento ad una cultura teologica. La demitizzazione del dogma diventa la demitologizzazione della nosologia. Personalmente, penso ad un luogo particolare in cui
attuare questo processo:la clinica.
Solo l'atto clinico, cioè il colloquio con il singolo (clinos/letto), ci permette di
demitizzare il nosos: la schizofrenia, la polmonite, lamelanconia…
Alcuni anni fa, formulai un'affermazione che mi sembrava enorme, dicevo: per una demitizzazione della psichiatria si può pensare solo alla clinica. Oggi ne sono convinto a pieno. In
fondo, più si parla con il soggetto psicotico, meno si parla di psicosi. Demitizzare la nosologia vuol dire, infatti, fare
certamente una diagnosi, magari di schizofrenia, per poi, parlando con il paziente, scoprire un mondo, il mondo della sua storia. Qui, il nostro paziente, la persona che abbiamo davanti, può essere
liberata dal peso della croce della schizofrenia. Piuttosto, egli è un essere umano che, per accordo comune, in certi suoi momenti, vogliamo indicare come schizofrenico. Di più non possiamo dire e
abbiamo salvato l'umanità dell'altro.
La fenomenologia ermeneutica del "corpo che siamo" è metafora viva, cifra ridescrittiva di dimensioni implicite, per un'innovazione di senso, anche a livello clinico (...). Mutuando i termini di
Ricoeur, io prendo possesso della certezza immediata del mio sintomo o della mia sindrome solo mediante le suggestioni interpretative che mediatizzano tale certezza. Indizio o segno di un nuovo modo
di abitare il mondo della clinica, di ridefinizione della realtà, di ridescrivere il duale rapporto medico con essa. Questo rischio inerente alla dimensione del corpo che siamo consente scambi e
permutazioni tali che rendono possibile strutturare il discorso psicosomatico, conferendogli un senso che tiene sempre aperta e in discussione la storia clinica, rendendola unica e
irripetibile.
Ipostatizzare la nosologia è un errore che non ha nulla a che vedere con il discorso nosografico. La nosografia è solo la descrizione dei sintomi di una malattia o di una sindrome. Quando, però, si
passa alla malattia, al nosos, troviamo un'ipostasi creata da noi.
Averlo compreso non vuol dire avere una soluzione, ma aprire una via diversa e, soprattutto, scrollarsi di dosso interi trattati di Psichiatria.
Ritornando sull'equivoco della corporeità all'interno della psicosomatica…
Nella nostra conversazione si è cercato di parlare de "L'equivoco psicosomatico della corporeità", e quindi, di un nuovo modo di guardare al corpo, nell'ambito della psicosomatica.
Tuttavia, forse, sarebbe opportuno cambiare il nome del percorso intrapreso. Si tratta, infatti, di sentieri che, dal corpo, come è inteso nella psicosomatica (nel senso classico, che pure è
importante), ci fanno passare all'antropologia della corporeità. Dal corpo compagine di muscoli ed ossa, al corpo cassa di risonanza delle nostre emozioni, alla corporeità, cioè al corpo vissuto,
al corps propre. Da questo punto di vista, non possiamo più parlare solo di fisicità, fatta di strutture chimico-fisiche od anatomiche, ma piuttosto di antropologia e di come vede il
corpo all'interno di un sistema culturale, in cui è l'antropos ad assumere la corporeità.
In questo senso io, oggi più che medico, mi sentirei di definirmi Cultore di Scienze Umane: Antropologo. Intendendo con ciò la dimensione che considera l'uomo in quanto uomo, nel suo farsi insieme
all'altro, come colui che costruisce con l'altro e gli altri, una storia comune.
A questo proposito, ricordo come, all'inizio della mia esperienza di medico, credevo di poter capire il corpo malato al tavolo anatomico, nell'istopatologia. Nel tempo mi sono reso conto che solo
nella clinica avviene un contatto completo, che è sempre più diverso, con il corpo sofferente. Si tratta di un'esperienza impagabile, un contatto necessario, per crescere come medico, ma anche come
persona. In questi anni, per esempio, mi sto occupando molto di Psico-Oncologia e trascorro del tempo accanto ai malati terminali, che si sa hanno non più di 6 o 8 mesi di vita. Da qui, da loro, da
quest'esperienza, quello che emerge non è il corpo della psicosomatica, ma, proprio, l'antropos sofferente.
Così terminando, mi piace sottolineare, di nuovo, che oggi la psichiatria non dovrebbe essere tanto nosologia psichiatrica, quanto psichiatria culturale. L'indagine psichiatrico antropologica,
infatti, può aiutare a comprendere la complessa ricerca della medicina psicosomatica. Un'indagine che si pone come un nuovo modo di guardare il corpo, regione intermedia tra il fisico e il mentale.
La psicosomatica diventa, così, un campo nuovo, in cui inquadrare ogni tipo di ricerca medica e psicologica, per riconoscere
finalmente nella intermediarietà la vera regione ontologica di ogni avvertito medico psicosomatico.
Intervista a cura di Marco Bernardini