Nella sua evoluzione più recente la psiconcologia mira non soltanto al superamento del dualismo mente - corpo, ma si orienta verso ad una visione integrata di tipo sistemico, correlando i molteplici fattori in gioco nella genesi della patologia oncologica, nella sua evoluzione e nella prassi della cura.
Al di là dell’approccio classico ai fattori psicosomatici individuali, viene data una crescente attenzione ai fattori psicosociali rappresentati dalla famiglia e dai contesti di cura, e alle implicazioni emotive e relazionali che li connotano. Tale impostazione determina l’apertura di nuovi e stimolanti orizzonti di ricerca, e rende sempre più necessaria e urgente una nuova organizzazione dei servizi di cura.
Sulla base di tali premesse, e in considerazione dell’importanza che la psiconcologia assume nell’ambito della psicosomatica, sia come luogo di ricerca, sia come attività operativa nella clinica, è stato organizzato dall’I.E.F.CO.S.T.RE. (Istituto Europeo di Formazione, Consulenza Sistemica e Terapia Relazionale), il convegno “Emozioni e relazioni in psiconcologia: dialogo tra sistemi complessi”, che si è tenuto a Cagliari il 24 novembre 2012.
Ha aperto i lavori del convegno la Dott.ssa Mariella Galli, Didatta del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale, Responsabile del Progetto «Assistenza e Sostegno a donne e famiglia affetti da patologia oncologica», presso l’Ospedale S. Pertini di Roma, con un intervento introduttivo sull’aumento dell’incidenza del cancro, nel mondo e in Italia, e sulla conseguente importanza della psiconcologia per le delicate dinamiche psicologiche e relazionali che coinvolgono le famiglie, i figli e le coppie di pazienti oncologici.
L’attivazione di percorsi psiconcologici di prevenzione, cura e riabilitazione del disagio emozionale, infatti, risulta fondamentale per il miglioramento della qualità della vita del paziente e della sua famiglia. È alla famiglia che si rivolge la psiconcologia, perché è l’intero sistema familiare a essere colpito dal cancro, che viene percepito come intrusione e minaccia per l’esistenza, dando origine a crisi e trasformazioni, che possono essere sia di tipo costruttivo che distruttivo per le relazioni familiari.
I processi adattivi, le strategie di coping, una comunicazione efficace e la condivisione di significati attribuiti alla malattia sono aspetti cruciali dell’equilibrio funzionale di tutte le famiglie colpite dal cancro.
Il buio comunicativo, invece, necessariamente contraddetto da messaggi analogici che testimoniano tensione e preoccupazioni, in particolare nelle famiglie con bambini, può favorire l’insorgere di un vero e proprio shock emotivo.
Anche nella coppia il miglior adattamento si ha quando essa è in grado di rielaborare la propria intimità nell’intento di includere anziché evitare gli aspetti della malattia, il suo significato e la minaccia della perdita.
Il bisogno di esprimere ed elaborare le emozioni della famiglia, principale fonte di supporto emotivo per i pazienti oncologici, è ad oggi spesso sottovalutato dagli operatori sanitari e dalla famiglia stessa, che lo vive come di secondaria importanza rispetto alla lotta per la sopravvivenza del malato di cancro. Sono rari, infatti, interventi strutturati che siano finalizzati al riconoscimento del fondamentale ruolo della famiglia del paziente oncologico, e che tengano in considerazione il duplice ruolo di supporto emozionale al paziente e di soggetto bisognoso di attenzione e supporto, in quanto esso stesso aggredito e minacciato dalla malattia.
Il secondo intervento, della Dott.ssa Lucilla Garofoli, Didatta I.E.F.CO.S.T.RE., (Ancona), ha affrontato la dimensione clinica, organizzativa e formativa in ottica sistemica dei Servizi sanitari. La relatrice ha riportato l’esperienza di eccellenza, nell’ambito dei servizi sanitari di aiuto e sostegno al paziente oncologico, dello I.O.M. (Istituto Oncologico Marchigiano, nato nel 1995 nei comuni di Iesi e Vallesina), Onlus di integrazione tra Azienda Sanitaria, Regione Marche e ambito privato, che si occupa di assistenza domiciliare ai malati terminali. Al suo interno lavora un gruppo multidisciplinare, preposto all’assistenza domiciliare di pazienti oncologici terminali che, sempre collegato in rete, coinvolge gli infermieri e l’assistenza domiciliare I.O.M, i medici di famiglia, il reparto di oncologia della ASL di competenza, il pronto soccorso, la guardia medica.
L’attività psicologica che viene promossa realizza interventi di supporto ai pazienti e ai familiari, nonché attività di supervisione e training per gli infermieri e i volontari che entrano in contatto con il difficile contesto della malattia terminale.
L’attività psicologica rivolta al paziente è specificamente centrata sulla delicata fase che attraversano i malati terminali e le loro famiglie, così come quella di supporto agli infermieri e ai volontari, che entrano in un contesto familiare di grande sofferenza, e lavorano per costruire un legame che necessariamente dovrà preparare ad un processo di separazione, ed è per questo centrata sui loro vissuti e sulle loro emozioni.
Le realtà dello I.O.M è particolarmente significativa per diversi aspetti, tra cui la sinergia operativa con le strutture ospedaliere pubbliche, l’approccio multidisciplinare nella definizione delle terapie dei pazienti, l’interazione costante con medici di medicina generale, la valorizzazione e il supporto delle esperienze emotive che coinvolgono tutti gli attori del processo terapeutico, dal paziente e la sua famiglia, all’equipe multidisciplinare preposta all’assistenza domiciliare dei pazienti oncologici terminali.
Nel terzo contributo “Il corpo come metafora”, la dott.ssa Daniela Seddone, psicologa e psicoterapeuta, del servizio di psiconcologia dell’Ospedale S. Francesco di Nuoro, ha proposto una riflessione sulla doppia opportunità di oggettivare il corpo, e al tempo stesso, di restituirgli soggettività. Il corpo, infatti, è necessariamente soggettivo, unico ed irripetibile, ma nel contempo è anche la cosa più oggettivabile, tangibile e misurabile.
In questo senso, in modo “parziale”, sembra che i bisogni possano essere espressi prevalentemente attraverso il corpo oggettivato, attraverso parti di esso, e non invece attraverso modalità soggettive, non codificabili, ritenute quindi inaccettabili e inascoltabili.
Eppure, anche nell’esperienza della malattia sono proprio i bisogni soggettivi, che premono per essere espressi cercando un codice condiviso, per essere accettati e ascoltati. Il corpo, allora, diventa il luogo di un racconto, singolare anche nei reparti oncologici, e l’esperienza di cura un’occasione
per restituire alla soggettivazione, la singolarità della persona.
In questo processo, nel servizio di Nuoro il punto di partenza diviene l’opportunità di scambio, di condivisione tra le diverse figure professionali che lavorano nell’ambito della salute, per restituire alla persona il senso di integrità. Valorizzando la soggettività e i significati non solo del paziente, ma di tutti gli attori coinvolti nel processo terapeutico, anche attraverso l’affiancamento degli operatori della salute.
Nella relazione con il malato di cancro, il tentativo di individuare altri codici, passa anche attraverso il tentativo di comprendere l’altro linguaggio metaforico del corpo, il linguaggio del sintomo, che deve essere ascoltato e riconosciuto. In questo senso emerge l’utilità di un terzo spazio – assimilabile ad un oggetto fluttuante metaforico - rispettoso e sensibile, in grado di raccontare ed accedere all’esperienza, senza che le persone si sentano spogliate, denudate. Nell’esperienza proposta tale opportunità fluttuante è realizzata grazie al disegno, in una cornice espressiva semistruttura. Dai diversi casi clinici e quadri relativi presentati al termine dell’intervento, è emersa con chiarezza tale opportunità dialogica e narrativa dell’esperienza soggettivabile della malattia, proposta dalla dott.ssa Seddone.
L’ultimo intervento, "Ecco il bambino. Il sistema e la sua anima", è stato curato dalla Dott.ssa Patrizia Montisci, psicologa psicoterapeuta, dell’Ospedale Microcitemico di Cagliari, e dalla Dott.ssa Letizia Casula, pediatra oncologa. La Dott.ssa Montisci ha descritto come i bambini, contrariamente agli adulti, riescano a vivere la malattia con naturalezza, affrontandola momento per momento, con il supporto dagli adulti, preziosi nel dare significato all’esperienza stessa. Nella ricostruzione della sua esperienza, la dott.ssa Montisci, recupera la relazione
del bambino con i suoi genitori sin dalla gravidanza, tempo questo di idealizzazioni, rappresentazioni molteplici ed angosce profonde, attraversa il momento della nascita, e ci accompagna nelle esplorazioni delle relazioni attraverso le quali il bambino conosce se stesso e il mondo. Nella complessificazione di questo puzzle relazionale che accompagna la crescita, risulta centrale per il bambino la percezione microevolutiva del sto bene/sto male, come in un pendolo che oscilla tra l’agio e il disagio. Tale moto pendolare si armonizza con le relazioni primarie, le “cure”, le attenzioni e più in generale con la stabilità del contesto, in una opportunità dinamica che da senso al processo evolutivo caratterizzato da microfuturi che insegnano la sostenibilità del cambiamento, in quanto “atteso”.
La malattia crea in questo scenario una soglia, una differenza nell'esperienza normalmente reversibile del bambino, dove l'attesa dello stare bene viene disattesa, dove il tempo smette di scorrere. L'ospedale irrompe, allora, nella vita del bambino, con il tempo scandito dai ritmi dell'assistenza, dove il bambino diventa meno visibile, costretto spesso a manipolazioni dolorose del proprio corpo e il disagio finisce per diventare la fonte di conoscenza del proprio corpo che cambia. E il dolore mentale che si patisce nella solitudine, nell'incomprensione, nel sentirsi impotenti, si sovrappone al dolore fisico della malattia, in quello che viene definito "doppia freccia". Proprio questo doppio dolore, altrimenti devastante, può trovare un lenimento e una risoluzione se accanto al bambino vengono proposte delle presenze attive, costruttrici di relazioni autentiche fondate sul riconoscimento e l’ascolto dei bisogni “naturali”: come giocare ed apprendere, aiutandolo, al contempo, a dare senso e significato alla sua esperienza, usando le risorse che possiede. Tutto ciò nella direzione di accogliere la richiesta, non solo implicita, del bambino di esserci come soggetto della sua vita, come attore attivo della malattia, come "io-malato", non come sintomo senza identità.
Così riconosciuto, il bambino potrà utilizzare maggiori risorse per accettare ed integrare l'esperienza di malattia e l'ospedalizzazione, vissuta non solo come frattura-discontinuità di un tempo passato, ma anche come progettualità di essere in un tempo futuro.
Bibliografia:
Edith Goldbeter-Merinfeld, Juan Luis Linares, Luigi Onnis, Elida Romano, Marco Vannotti (2012) “La terapia familiare in Europa. Invenzione a cinque voci”, Franco Angeli, Milano.
Monica Tomassoni, Luigi Solano (2011) “Una base più sicura”, Franco Angeli, Milano.
Philippe Caillé, Yveline Rey (2005) “Gli oggetti fluttuanti. Metodi di interviste sistemiche”, Armando Editore, Roma.
Valentina Sulis (2011) “Il nostro mondo sopra e sotto”, Tiligù Editrice, Cagliari.